semiotica

Società dell’attenzione e qualità dell’informazione: lo scontro tra fatti e credenze nell’era della post-verità

Per superare i problemi dell’economia dell’attenzione servono delle reti che permettano ai contenuti di qualità di emergere, di non essere sopraffatti da logiche di diffusione che promuovono l’informazione sensazionalistica e di scarsa qualità. Una riflessione sull’era della post-verità con l’aiuto della semiotica

Pubblicato il 26 Mag 2022

Marco Giacomazzi

ricercatore università di Bologna

App Tracking Trasparency

Nell’era della post-verità le emozioni sembrano essere in conflitto con i fatti oggettivi, secondo la celebre definizione degli Oxford Dictionaries. Questa però è una falsa dicotomia, poiché è impossibile pensare ai fatti al di fuori della loro vita sociale. Ciò che sembra succedere è piuttosto uno sbilanciamento della rilevanza delle informazioni all’interno del discorso pubblico, che ha esasperato gli aspetti emotivi ed identitari delle notizie alla ricerca di visualizzazioni e accessi a inserzioni.

Il mondo dell’informazione, nello specifico all’interno dei social media, lotta attivamente per catturare l’attenzione degli utenti: i loro proventi derivano dalla capacità di essere competitivi all’interno della cosiddetta economia dell’attenzione.

Se la sociologia digitale può aiutarci a misurare l’effettivo comportamento degli utenti quando navigano in rete, e le scienze quantitative a rilevare gli effetti sul mercato, con l’aiuto della semiotica possiamo invece provare a capire come l’attenzione sia costruita dalle piattaforme a partire dal loro design, dalle loro interfacce e dai loro stili comunicativi.

Il senso dei fatti

Nel 2016 gli Oxford Dictionaries[1] eleggono Post Truth come parola dell’anno. La ormai celebre definizione recita:

Post-truth is an adjective defined as ‘relating to or denoting circumstances in which objective facts are less influential in shaping public opinion than appeals to emotion and personal belief’.

Ed è così che, nel discorso pubblico come nella produzione accademica (Ferraris 2017; McInthyre 2018) inizia a delinearsi una critica della post-verità basata su una dicotomia tranchante che separa i “fatti” dalle “opinioni”.

Questa però è una falsa dicotomia, poiché è impossibile pensare ai fatti al di fuori del loro rapporto con gli attori della vita sociale: con le persone e con ciò che questi fatti significano per loro (Lorusso 2018). Questo non vuol dire che possiamo svalutare ciò che succede nel mondo o escludere gli eventi dalle nostre considerazioni e ragionamenti, ma significa che i fatti, gli eventi, gli accadimenti, vanno sempre contestualizzati all’interno di regimi discorsivi interconnessi, i quali permettono relazionalmente di dare loro un senso e un significato.

Il dibattito sul realismo (D’Agostini 2013) che ha animato la filosofia e le scienze umane una decina di anni fa, ha voluto ridare centralità alla categoria di realtà, che ad alcuni appariva “svuotata” di senso e di rilevanza, prestando così il fianco a interpretazioni fantasiose. L’accusa che si faceva ai saperi cosiddetti “postmoderni” o “decostruzionisti” era quella, secondo una teoria a domino di crescente pericolosità, di aver dato centralità alle interpretazioni sopra alle descrizioni “fedeli” del reale, generando così i mostri della postverità e della disinformazione.

D’Agostini ci ricorda che questo non è mai stato l’obiettivo dei saperi decostruzionisti, e che il loro collegamento con la disinformazione deriva a sua volta da un’interpretazione che ne stravolge il significato, costruendo un obiettivo polemico ad hoc per portare avanti una tesi sulla necessità di un ritorno alla realtà.

Tuttavia, se si guarda ai fenomeni comunicativi con la consapevolezza delle scienze sociali, non si possono semplicemente distinguere i fatti dalle opinioni in maniera acritica e dicotomica. Questo non perché non sia possibile una descrizione nuda e cruda degli eventi, ma perché ognuna di queste descrizioni nude e crude cancelleranno sempre delle prospettive possibili, seppur parziali, su quegli stessi eventi e fenomeni.

La lezione sul simbolico, da Deleuze (1976) a Baudrillard (1976), ci insegna che non esiste semplicemente una separazione tra il regime del reale e quello dell’immaginario, ma che esiste un terzo ordine, quello del simbolico, che esiste tra i due, che ci serve per riferirci alle cose del mondo, e che a sua volta ha degli effetti sul mondo. Effetti che non sono affatto meno “reali” dei fatti oggettivi, ma che si qualificano come cose che partecipano del mondo (Austin 1955), seppur secondo un modo di esistenza diverso dagli oggetti materiali.

Ciò che appare interessante è quello che viene definito uno spostamento dei regimi di visibilità (Santangelo 2016) all’interno dei media, che rende rilevanti alcune caratteristiche piuttosto che altre. Questo spostamento dei regimi di visibilità costituisce uno sbilanciamento della rilevanza delle informazioni all’interno del discorso pubblico, esasperando gli aspetti emotivi ed identitari delle notizie alla ricerca di ingressi sulle inserzioni, le quali a loro volta garantiscono la sopravvivenza economica delle testate giornalistiche e degli agenti di informazione, sempre più dipendenti da fenomeni come quello del del clickbait.

Questo ci aiuta a capire perché per comprendere davvero i fenomeni della disinformazione non possiamo semplicemente inserire nel circuito dei social media dei fatti più “crudi” e aspettare che questi alzino il livello del dibattito pubblico. Secondo queste premesse, sembrerebbe che per combattere la disinformazione non avremmo bisogno di “più fatti, meno interpretazioni”, ma di capire meglio i meccanismi di formazione delle opinioni, della circolazione delle informazioni, dei valori che ne definiscono il profilo narrativo.

Il punto non è spogliare i fatti delle interpretazioni, alla ricerca di una verità più obiettiva: il punto è avere delle interpretazioni migliori, più consapevoli e meno viziate da meccanismi sensazionalistici e di accrescimento di valore economico.

La società dell’attenzione

Cinquant’anni fa, Herbert Simon (1971) ammoniva a proposito del fatto che in una società a massima crescita di informazioni, sarebbe iniziata a scarseggiare un’altra risorsa: l’attenzione.

Lo sviluppo dei mass media, l’era che veniva chiamata delle comunicazioni “di massa” è stata segnata dalla lotta competitiva per la cattura dell’attenzione di spettatori, ascoltatori e lettori da parte di quelli che oggi chiamiamo ormai tradizionali agenti dell’informazione.

La costruzione di una notizia, di un “fatto” giornalistico ha risposto per anni ai cosiddetti criteri di notiziabilità (Wolf 2000), andando a costituire un discorso giornalistico dotato di sue forme sintattiche, logiche e grammatiche specifiche (Lorusso, Violi 2004).

All’interno delle logiche del giornalismo infatti, i criteri di notiziabilità stabilivano quei confini discorsivi entro i quali un fatto era considerabile o meno notizia, dall’attualità, ai soggetti coinvolti. È ormai da anni che gli agenti dell’informazione si stanno però ritrovando coinvolti all’interno di una nuova lotta per catturare l’attenzione degli utenti. Le piattaforme, i loro meccanismi di profilazione, la loro attività di mediazione, pongono i loro criteri di pertinenza, andando a costituire gerarchie personalizzate a partire dalle caratteristiche rilevate dalla navigazione degli utenti.

I proventi di testate e soggetti dell’informazione derivano ancora dalla capacità di essere competitivi all’interno di un mercato, che ha però cambiato le sue regole. Nell’ecosistema mediale mediato da piattaforme, il mercato segue le regole dell’economia dell’attenzione: è il tempo che spendiamo all’interno degli spazi digitali a dare loro valore, e i lavori nel campo dell’informazione e della comunicazione non possono non partecipare a questa battaglia per la cattura dell’attenzione degli e delle utenti.

Il problema di questo tipo di sistema è anche l’abbassamento della qualità delle informazioni. La velocità di trasmissione, unità alla necessità di adottare toni sensazionalistici e di progettare dei contenuti catchy ha delle ovvie conseguenze sulla qualità del discorso giornalistico.

L’economia della relazione

Uno dei temi di cui tratta più spesso Valerio Bassan nella sua newsletter “Ellissi”[2] è proprio quello dell’“economia della relazione”, un modello di business per creatori di contenuti fondato sul supporto economico diretto degli abbonati, come alternativa a un giornalismo fatto di pubblicità, clickbait e informazione di scarsa qualità. Lo stesso Bassan ne parla spesso però in termini anche critici, poiché il miraggio della creator economy nasconde potenzialmente gli stessi problemi del bias del sopravvissuto: concentrarsi su quei pochi creator (o influencer dell’informazione) che riescono a costruire un rapporto fidelizzato con il proprio pubblico rischia di distogliere l’attenzione sulla stragrande maggioranza di quelli che non riescono a trovare un sostegno economico adeguato al proprio lavoro.

Le responsabilità alla base della crisi che attraversa il mondo dell’informazione non ricade infatti sugli utenti o sui creator: i problemi alla base della circolazione delle informazioni continuano ad essere la scarsa regolazione dell’attività di mediazione delle piattaforme digitali, e la poca trasparenza dei grandi player a proposito dei criteri di progettazione di questi spazi online[3].

Questi problemi non riguardano solo il giornalismo o l’informazione di servizio pubblico, ma attraversano in maniera trasversale anche il mondo dell’intrattenimento e quello della cultura. Ad esempio, recentemente ha fatto molto discutere il calo di iscrizioni accusato da Netflix, che li sta portando alla ricerca di nuovi modelli di sostentamento oltre alle iscrizioni[4].

La maggior parte dei lettori di notizie non è disposta[5] a pagare per avere dei contenuti mediali di qualità. Come interpretare questo dato? Sicuramente a questa scarsa inclinazione corrisponde una scarsa considerazione del lavoro di ricerca e produzione di informazioni, ma questo può anche derivare da un’inconsapevolezza sostanziale su quali dinamiche sottostiano al lavoro editoriale e giornalistico. A livello più sistemico invece, questo dato può essere collocato all’interno di un ecosistema mediale che fornisce sempre di più la possibilità di accedere a contenuti completamente gratuiti.

Così come Amazon riesce a promettere una consegna velocissima dei beni, nascondendo e rendendo opache le ricadute materiali sull’organizzazione della logistica e del lavoro – e dei diritti dei lavoratori – dietro alla consegna di quei beni, alla stessa maniera le piattaforme social promettono informazione gratuita, disponibile ubiquamente e in ogni momento e accessibile universalmente.

La consapevolezza semiotica però ci permette di rivelare il grosso rimosso di questa utopia: la comunicazione è un lavoro semiotico, e di conseguenza un processo sociale. La produzione di un testo non solo richiede tempo e risorse, ma più in generale coinvolge una serie di dimensioni intertestuali ed enciclopediche che non possono essere considerate al di fuori della rete di relazioni sociali in cui siamo inseriti.

Ne consegue che l’informazione non è un bene neutro, e non segue delle logiche di accumulazione e diffusione basate sulla sua veridicità, obiettività e qualità. Non esiste un’utopia digitale basata sulla libertà di espressione che ci può promettere informazioni di qualità a costo zero.

Ciò che andrebbe preteso per superare i problemi dell’economia dell’attenzione quindi sono delle reti che permettano ai contenuti di qualità di emergere, e di non essere sopraffatti da logiche di diffusione che promuovono invece l’informazione sensazionalistica, non controllata e confrontata, veloce e di scarsa qualità.

Per una semiotica dell’attenzione

Si è detto che la consapevolezza semiotica può aiutarci a riflettere sulle dinamiche sistemiche e generali della circolazione delle informazioni. Si vuole ora provare a dimostrare come proprio questa disciplina fornisca gli strumenti concettuali per studiare la costruzione dell’attenzione da parte dei media digitali.

Con costruzione dell’attenzione si intende l’attività mediale di rendere più pertinenti rispetto ad altri alcuni contenuti, alcuni fattori testuali. Per definizione, l’attenzione è una facoltà cognitiva di selezione di alcuni tratti rilevanti rispetto a uno sfondo di informazioni ritenuti non rilevanti.

La semiotica è una disciplina esternalista, che studia i processi comunicativi senza chiedersi ciò che succede all’interno della mente degli attori sociali, ma si concentra sui sistemi di relazioni testuali, discorsive, e culturali esterne ad essi. Così si può osservare che i testi che noi attori sociali produciamo non solo rispondono a una progettazione che ha inscritto in essi delle informazioni, ma a loro volta agiscono all’interno della società e della cultura, assumendo un’agency. Nello studio semiotico quindi ciò che emerge sono i fattori sociali e culturali che presiedono a questi movimenti, secondo i modelli dell’enciclopedia (Eco 1975) e della Semiosfera (Lotman 1985).

Questo non vuol dire che la semiotica non si interessi dei fattori cognitivi che contribuiscono alle nostre attribuzioni di senso, ma che abbia sviluppato degli strumenti che servono più che altro a studiare la cognizione in quanto processo situato (Paolucci 2021), contestuale e in parte dipendente dall’ambiente in cui essa è inserita.

Per fare un esempio, la semiotica della memoria (Eco 2007, Demaria 2006, Violi 2014) non studia la memoria in quanto facoltà cognitiva degli esseri umani in virtù dei suoi correlati neurologici e fisici, ma studia la memoria in senso esternalista, come costruzione sociale collettiva e condivisa, come quadro sociale (Halbwachs 1925) che ci permette di dare senso ai fatti storici, e di costruire ad esempio identità collettive e, alle volte, anche individuali. La memoria in senso esternalista è costruita dai testi che collettivamente decidiamo di conservare, di rendere rilevanti e memorabili.

In che maniera si potrebbe studiare quindi l’attenzione in senso esternalista? Se l’attività dei media digitali è quella di competere al fine di catturare l’attenzione degli utenti, questo vorrà dire che potremo andare a ricercare all’interno dei media delle caratteristiche che ne rivelino i meccanismi di pertinentizzazione: sono i media, interdiscorsivamente, a rendere più o meno rilevante un testo rispetto a un altro.

Dovremo quindi innanzitutto considerare la mediazione algoritmica delle piattaforme in quanto processo sociale di delega (Latour 2005; Paolucci 2020) e non soltanto di filtraggio statistico (Violi 2017). Se è vero che gli algoritmi sono delle serie di operazioni programmate, questo non vuol certo dire che non possano essere sottoposti a studi di carattere sociale, come ci insegnano gli Science and Technology Studies. Nelle parole della data scientist Cathy O’ Neil[6], “algorithms are opinions embedded in code”.

Dopodiché, potremmo andare a rilevare quei fattori enunciativi (Greimas, Courtes 1979; Paolucci 2020) che stanno alla base dei testi mediali: questo significa studiare come vengano rappresentati gli attori della situazione di comunicazione (enunciatore ed enunciatario, in questo caso l’utente e la piattaforma) e quali dimensioni sociali partecipino delle operazioni che sottendono alla produzione dei contenuti online. Solo perché un’interfaccia (Zinna 2004) si presenta come un insieme di tratti grafici orientati a una funzione pratica, non significa che anch’essa non risponda a delle precise scelte enunciative.

Un cardine della semiotica interpretativa è la pragmatica testuale: lo studio delle operazioni pragmatiche che i “lettori” (Eco 1979) di un testo possono o non possono fare a partire dalle caratteristiche di quel testo. Con lettore in questo caso intendiamo non semplicemente l’utente, ma quell’idea virtuale[7]che il testo prevede per una sua interpretazione felice, ovvero in linea con le sue componenti testuali. Ogni testo infatti prevede che chi interagisce con esso possieda una serie di caratteristiche che permetteranno o non permetteranno la disambiguazione dei suoi contenuti.

Lo sforzo concettuale che la semiotica ci porta a fare, quello di ritagliare dei testi e porli a oggetto delle nostre analisi, permette anche di evidenziare come i meccanismi di profilazione e di restituzione di contenuti sulle base delle preferenze individuali si costituisca come una catena isotopica che segue linee di coerenza identitarie. Il criterio alla base del tentativo delle piattaforme di catturare la nostra attenzione è quello di un’identità – rilevata attraverso la navigazione – che è però a sua volta qualcosa di testuale e non sostanziale, un insieme di caratteristiche registrate, composte e poi in parte restituite dal medium attraverso quelle operazioni che Shoshanna Zuboff chiama “renderizzazione del comportamento” (2019).

L’analisi sociologica di Zuboff si concentra molto sui risvolti politico-economici del capitalismo della sorveglianza, ma se la sua domanda è “perché in primo luogo la nostra esperienza viene renderizzata in dati comportamentali?” (Zuboff 2019: 247), la semiotica – in quanto scienza dei linguaggi attenta ai fenomeni di traduzione intersemiotica – può chiedersi come questa esperienza venga tradotta, e nel farsi questa domanda recuperare le forme discorsive e grammatiche culturali (Ferraro 2014) che soggiacciono al processo.

Conclusioni

Nella società dell’attenzione, il primo criterio di pertinenza per decidere se un’informazione è interessante o meno siamo noi stessi: questo perché una versione testuale della nostra stessa identità viene costruita dai media digitali, utilizzando strategie enunciative specifiche e assumendo dei tratti narrativi.

Ritornano allora con urgenza i temi esplorati in apertura: se la postverità si caratterizza come una condizione in cui le credenze personali sono più influenti dei fatti obiettivi nel dare forma all’opinione pubblica, allora innanzitutto bisogna investigare quali sono i meccanismi che regolano la rilevanza delle credenze personali all’interno delle arene di rappresentazione e di scambio delle idee.

Continuare a opporre fatti e opinioni come se appartenessero a ordini diversi e non facessero parte di un ciclo interdipendente (e mediato da segni) non coglie il problema alla base della postverità: che l’opinione pubblica non dipende da uno scambio democratico e virtuoso di diversi interessi e valori politici, ma che sia diventato l’accumulo frammentato di credenze identitarie, la cui rilevanza cresce esponenzialmente insieme al bisogno delle piattaforme – e degli agenti dell’informazione che vivono di lavoro sulle piattaforme – di catturare la nostra attenzione e mettere una bandierina sul nostro tempo.

Nella breve storia dell’umanità sul pianeta, i fatti obiettivi hanno sempre dovuto scontrarsi con le credenze, con le opinioni, con il loro stesso peso politico e morale; a definire i termini di questa relazione sono intervenute, nei vari momenti della storia, diverse ragioni e diverse razionalità, ciascuna dipendenti dalle diverse epistemi in cui si sono trovate collocate. Nella ancor più breve storia dell’opinione pubblica, si profila il vero problema: se mai quest’ultima è stata qualcosa di collettivo, in questo momento è qualcosa di frammentato, separato in sfere che non sembrano saper comunicare. E invece che fare ciò che la sua definizione richiederebbe, ovvero mediare, finisce per dividere.

Bibliografia

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  1. https://languages.oup.com/word-of-the-year/2016/
  2. https://ellissi.email
  3. https://secure.avaaz.org/campaign/en/facebook_threat_health/
  4. https://www.corriere.it/tecnologia/22_aprile_20/netflix-perde-abbonati-cause-soluzione-36acda0a-c089-11ec-a9eb-2524bc1194db.shtml
  5. https://www.reuters.com/article/us-global-media-idUSKCN1TC2WV
  6. https://www.ted.com/talks/cathy_o_neil_the_era_of_blind_faith_in_big_data_must_end
  7. Nel senso di modo di esistenza semiotico, quindi opposto a attuale e realizzato.

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