lavoro agile nella PA

Smart Working, così attecchirà nella PA nel 2019: come fare

In un secolo profondamente segnato dalla trasformazione digitale, la PA segna il passo soprattutto in tema di smart working. Eppure, i benefici sarebbero impressionanti. Per favorire il cambiamento serve un supporto regolatorio e di formazione. Quanto al primo punto c’è già una direttiva che dice tutto. Basta applicarla

Pubblicato il 08 Gen 2019

Gianluigi Cogo

Agenda Digitale Regione Veneto

smart working

Si, il 2019 sarà l’anno dello Smart Working. L’anno in cui il cosiddetto ‘Lavoro Agile’ potrà – anche nella pubblica amministrazione – finalmente uscire dall’alveo sperimentale e inserirsi a pieno titolo fra quei modelli organizzativi che, più di altri, si nutrono e si avvantaggiano dei benefici indotti dalla rivoluzione digitale in corso.

Sono certo sarà così e lo dico un po’ per convinzione e un po’ come scaramantico auspicio, perché mi piacerebbe che si comprendesse meglio l’enorme potenzialità a livello organizzativo, e l’enorme beneficio a livello economico, che questo paradigma porta con sé.

Smart working e PA

Se nel mondo privato, a tutti i livelli, lo Smart Working viene visto quasi come un obbligo (basti pensare a quanto sono smart i modelli organizzativi che afferiscono ai free lance e/o alle start-up, ma non solo), nel dominio della Pubblica Amministrazione è necessario accompagnare questa rivoluzione con dei supporti a livello regolatorio e con un accompagnamento formativo importante, necessario per scardinare la consueta opposizione al cambiamento che caratterizza da sempre questo complesso settore.

Riguardo al primo punto, necessario e fondamentale per un’applicazione corretta del paradigma nel settore pubblico, si fa riferimento alla Direttiva n. 3 del 2017 e al suo enunciato principe:

‘Le finalità sottese sono quelle dell’introduzione, di nuove modalità di organizzazione del lavoro basate sull’utilizzo della flessibilità lavorativa, sulla valutazione per obiettivi e la rilevazione dei bisogni del personale dipendente, anche alla luce delle esigenze di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro. A questo riguardo assumono rilievo le politiche di ciascuna amministrazione in merito a: valorizzazione delle risorse umane e razionalizzazione delle risorse strumentali disponibili nell’ottica di una maggiore produttività ed efficienza;  responsabilizzazione del personale dirigente e non; riprogettazione dello spazio di lavoro; promozione e più ampia diffusione dell’utilizzo delle tecnologie digitali; rafforzamento dei sistemi di misurazione e valutazione delle performance; agevolazione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro’.

I principi cardine della direttiva

Proprio in esso ritroviamo dunque alcuni principi cardine che vado a sezionare:

Nuove modalità di organizzazione del lavoro basate sull’utilizzo della flessibilità lavorativa

Principio centrale e per certi versi dirompente in un settore, quello pubblico, dove spessissimo si esercitano le stesse funzioni per l’intero arco della vita lavorativa, mantenendo inalterato il luogo in cui le si esercita ma progredendo nella carriera senza mutare o aumentare e diversificare le mansioni assegnate. Un ossimoro pericoloso e un ostacolo per la produttività ma soprattutto per l’efficienza. Dunque parola d’ordine per chiunque voglia cimentarsi con lo Smart Working nella PA è: rimettersi in gioco!

Valutazione per obiettivi

Possiamo annoverare questo principio fra quelli che ‘a volte ritornano’, ovvero fra quelli che ciclicamente si ripropongono ma che non trovano supporto nei metodi di valutazione (compresi gli strumenti a supporto) e, soprattutto, nella capacità di assegnare obiettivi che siano sintesi del successo di una progettualità piuttosto che di una semplicistica misurazione di attività ripetitive (processi e azioni).
Lo Smart Working prevede infatti che in fase di stipulazione del contratto individuale siano assegnati obiettivi molto alti (misurabili) di outcome o di impact sui progetti in cui il lavoratore agile viene impegnato. Ciò è in antitesi con gli obiettivi di output che spesso vengono assegnati in una normale contrattualistica decentrata pubblica e che si esauriscono quasi sempre nel banale conteggio dei task assegnati a breve termine (numero di pratiche, sigh!).

Rilevazione dei bisogni del personale dipendente

Qui entriamo in un terreno minato e irto di ostacoli perché ci sono due visioni contrapposte che afferiscono allo stesso principio. La prima è quella dell’Amministrazione e dunque dell’esigenza politica, ma anche manageriale, di potenziare le competenze verticali (hard skill) per assicurare all’apparato la solidità necessaria nella gestione dei servizi a cui è preposto. La seconda parte invece dalla maturata consapevolezza dei dipendenti pronti ormai a chiedere con forza un potenziamento delle competenze trasversali (soft skill) necessarie per adeguare il proprio profilo lavorativo ai cambiamenti imposti dalle tecnologie e dalle nuove modalità di relazione e organizzazione che il lavoro agile prevede.

Conciliazione dei tempi di vita e di lavoro

Le misure minime a cui si fa riferimento (e per le quali la normativa prevede delle premialità per gli Enti) demandano alla contrattazione decentrata una serie di analisi e successivi accordi tesi a offrire un set di soluzioni per i problemi che portano spesso il lavoratore a combattere per rendere conciliabile la vita personale con quella professionale.

Al netto dei soliti e già sperimentati esempi (alcuni anche oggetto di normativa dedicata) come gli asili nido aziendali, piuttosto che le banche ore o i bonus servizi (spesso in ambito socio-sanitario), vanno sicuramente valutati nuovi modelli come quelli relativi ai servizi di time saving organizzati. Uno per tutti è quello del ‘maggiordomo aziendale’ calibrato sulle reali necessità dei dipendenti, che opera come un vero e proprio ‘servizio di pratiche personali’ sgravando il lavoratore, ma soprattutto l’organizzazione, della perdita di produttività e dai costi di gestione (permessivistica/autorizzazione/rendicontazione).

Valorizzazione delle risorse umane

Con lo Smart Working la persona e le sue capacità tornano ad essere più importanti del processo che efficienta il servizio.

Grazie a un bagaglio di competenze trasversali ri-potenziate e messe a disposizione dell’organizzazione, il capitale umano viene così utilizzato per il problem solving, la progettazione, l’innovazione e soprattutto la capacità di visione che, precedentemente, erano obnubilate dalla ricerca della perfezione nei processi e dunque negli adempimenti.

Se lo Smart Worker frequenta di più il mondo esterno all’organizzazione ne capisce anche meglio i punti di debolezza che questa spesso ignora quando è protesa a perfezionarsi auto valutandosi.

La sola frequentazione di uno spazio di co-working, dove il lavoratore di una Pubblica Amministrazione viene contaminato dalle modalità operative di un free-lance o da un gruppo di giovani startappuri, genera più visione di una serie di corsi a catalogo tesi a potenziare le competenze di dominio.
Questa adesione al paradigma dell’Open Innovation deve essere uno degli stimoli più importanti che le organizzazioni pubbliche devono recepire per rimettere i propri operatori a contatto con un mondo reale che in questi anni ha fatto passi da gigante e ha impresso una velocità impressionante ai modelli relazionali e organizzativi.

Razionalizzazione delle risorse strumentali disponibili e riprogettazione dello spazio di lavoro

Stiamo vivendo dunque un momento storico molto importante che aiuta a ridisegnare il lavoro facendolo evolvere verso una dimensione senza luogo e senza tempo (con alcuni pericoli e problemi sociali annessi che non vanno sottovalutati) e che sfrutta le nuove tecnologie digitali (cloud computing e apparati mobili in primis) per supportare paradigmi ancora giovani ma che lasciano intravvedere un’opportunità unica, ovvero quella di mettere al centro le capacità e non le prestazioni, come invece succedeva nel secolo precedente.

Le capacità dunque non si esprimono, come le prestazioni, misurando i prodotti che la catena di montaggio eroga e che spesso vengono valutati in quantità (numero di pratiche, numero di protocolli, numero di contatti, ecc.) ma impone indicatori diversi che possano valutare le attitudini (dunque capacità) come ad esempio: trovare i fondi necessari per finanziare un progetto, comunicare in modo persuasivo l’efficacia di un servizio, scegliere i partner più idonei con cui co-progettare un nuovo servizio, ecc.

Ma, per fare e dimostrare tutto ciò, serve una postazione di lavoro fissa? Un luogo dove venga riconosciuta l’importanza del ruolo dalla metratura della stanza o dall’arredo dei mobili? Sicuramente no!

Oggi gli strumenti diventano secondari al punto da considerare quelli personali più consoni alle finalità lavorative rispetto a quelli che il datore di lavoro mette a disposizione.

La consumerization dell’IT offre una varietà di soluzioni che le aziende, siano esse pubbliche o private, stentano a gestire e indirizzare. Lo shadow IT si posiziona in percentuali impressionanti nella gestione di progetti e risorse cloud condivise. Il paradigma BYOD trova sempre nuovi adepti che lo vogliono sfruttare soprattutto per mantenere intatta l’esperienza utente senza doversi gravare di ulteriore apprendimento tecnico su infrastrutture e strumenti gestiti dall’azienda per cui operano.

E in tutto ciò lo spazio dedicato diventa solo un onere. Una postazione fissa intesa come ‘ufficio pubblico esclusivo’ ha dei costi assurdi con delle componenti che diventano insostenibili.

Proviamo infatti a considerare e valutare con attenzione quante delle attività che vengono svolte nel sacro luogo che sancisce il ruolo, possano essere comodamente svolte in modalità di remote office e, ovviamente, anche in modalità smart soprattutto quando l’elemento relazionale e strategico dell’attività prevale su quello funzionale.

Dunque la persona che lavora in un epoca così profondamente segnata dalla digital trasformation in atto, deve ripensare a se stessa spogliandosi delle costosissime componenti strumentali e logistiche che rappresentano spesso uno status dettato da vecchie logiche verticistiche e verticali, figlie di modelli organizzativi ormai appartenenti al passato.

E la Pubblica Amministrazione tutta deve capire che lo spazio necessario all’organico dovrà ridursi continuamente in funzione alla frequenza con la quale le prestazioni lavorative migreranno verso le nuove modalità agili.

Infine, tutta la PA dovrà ripensare a luoghi e spazi condivisi con altri soggetti, da utilizzarsi solo come alternative ineludibili al lavoro ‘ovunque’, ma momentanee e sfruttabili in funzione di necessità non solo economiche, ma soprattutto culturali… Ovvero, il cambiamento culturale come leva del risparmio.

Responsabilizzazione del personale dirigente

Capitolo complicato, forse il più complicato di tutti, quello che coinvolge il management pubblico.
Il manager appartenente a questo settore è tuttora residente all’interno di una comfort zone che gli garantisce, nell’immutabile contesto di quasi tutta la Pubblica Amministrazione, ampi spazi di manovra consolidando i modelli fordisti del ‘900.

Tutto l’assetto organizzativo e la scala gerarchica che lo sostiene, sono basati su ruoli e responsabilità settoriali che raramente sconfinano il perimetro di afferenza, e le responsabilità rimangono quasi sempre limitate a pochi ambiti sui quali, spessissimo, il manager detiene competenze verticali di grandissima qualità e difficilmente trasferibili.

Ciò gli consente di avere pieno dominio negli adempimenti su cui è misurato e di misurare a sua volta i sottoposti che, similmente, sono impegnati anche loro con grandissime competenze specifiche, nei diversi segmenti di una filiera dove processi, metodi, persone, competenze, ruoli e tempi sono orchestrati perfettamente e dove gli unici cambiamenti sostanziali sono relativi agli adeguamenti normativi che di volta in volta intervengono.

Su questo impianto vengono anche organizzati gli spazi e i tempi nei quali tutta la macchina opera. Le tecnologie sono quasi sempre a supporto del metodo e non trasformano un bel niente, anzi assecondano il tutto senza farlo evolvere verso quelle logiche che, invece, prevedono un mutamento dell’organizzazione al mutare degli strumenti.

Dunque questo è il settore sul quale bisogna intervenire con più forza e convinzione per traghettare il management verso un apprendimento delle soft skill e delle tecnicalità oggi appannaggio delle nuove generazioni, che gli permettano di mettere in discussione il metodo sinora adottato e di percepire vantaggi reali al di là dell’avanzamento di carriera.

Stiamo parlando di formazione? Certo che si. Ma non solo. Credo sia doveroso indurre il management ad uscire dall’ufficio dove ha trasferito parte dell’esistenza per persuaderlo a relazionarsi con il resto del mondo produttivo.

In piena adesione al modello dell’Open Innovation sarà il manager a spostarsi all’esterno per capire cosa sta succedendo e come stanno mutando le organizzazioni. Proverà a sperimentare come il lavoro per obiettivi attraverso la condivisone di idee, progetti e risorse che una volta erano a suo completo appannaggio.

Promozione e più ampia diffusione dell’utilizzo delle tecnologie digitali

In un secolo profondamente segnato dalla trasformazione digitale la Pubblica Amministrazione sembra ancora al palo.

Mentre le città e i territori infatti provano a sfruttare le tecnologie per diventare smart e le industrie cavalcano la quarta rivoluzione trainate dalla robotica e dall’utilizzo massivo dei dati digitali, il comparto pubblico è in ritardo e tutt’ora impaurito dall’aggressività di tecnologie già consolidate nel mondo produttivo e dei consumi.

Cloud computing, apparati mobili, shadow IT, blockchain, data analytics e Intelligenza artificiale, social media communication e tanti altri fenomeni che altrove hanno letteralmente distrutto i vecchi sistemi organizzativi, nella PA sono visti ancora con diffidenza.

Lo Smart Working invece cavalca con un opportunismo spietato tutto ciò che la tecnologia digitale offre e lo usa per ottimizzare tempi e spazi senza chiedersi troppi perché.

E’ il caso del BYOD che non va visto solo come risparmio per l’Ente (il dipendente usa le strumentazioni domestiche e/o personali) ma come un’adesione al modello della consumerization dell’IT che corre più veloce dell’adeguamento tecnologico della PA, spesso frenato culturalmente e soprattutto dall’interpretazione frenante delle norme di tutela.

Rafforzamento dei sistemi di misurazione e valutazione delle performance

Chi come il sottoscritto sta già sperimentando questo modello, sa perfettamente che al netto delle misurazioni e degli indicatori c’è un aspetto psicologico che non va sottovalutato e che spinge lo smart worker a dimostrare la propria produttività con tutti gli strumenti possibili.

Essendo il sentiment prevalente molto ostile e l’approccio culturale molto basico, spesso si è portati a ‘strafare’, ovvero a voler dimostrare quante e quali cose si riescono a fare distanti dalla scrivania dell’ufficio, quasi ci si dovesse difendere da un retropensiero che non lascia sconti.

Ero stato avvertito di ciò quando entrai nella sperimentazione del progetto Ve.LA. (trovate su ForumPA un mio resoconto sul tema) e sapevo che non bastava concordare gli obbiettivi, inserirli nel piano di valutazione, utilizzare indicatori di risultato appositamente studiati, istruire il ‘diario di bordo’ giornaliero, ecc., era necessario stupire, altrimenti lo sforzo sarebbe stato vanificato da un semplice inciampo: ‘non mi hai risposto al telefono, dov’eri?’, ‘ti ho mandato una email 10 minuti fa, come mai non hai risposto?’, ‘ho modificato il documento on line ma non mi hai approvato le modifiche, ci son problemi?’. Trappoloni che i detrattori usano per sgamarti e dimostrare che a pensar male non si sbaglia mai.

Urge dunque rimodellare il sistema di valutazione basandolo sulla misurazione di performance diverse dal mero presenzialismo e dal numero dei prodotti (pratiche/protocolli/adempimenti, ecc). Per fare ciò dovranno essere introdotte logiche valutative basate sui risultati (tipiche del project management e supportate da KPI specifici di quell’ambito) nonchè sui livelli di servizio offerti, anche qui con KPI relativi alla qualità e frutto di rilevazioni sulla soddisfazione dell’utenza, interna ed esterna all’Ente.

E’ fondamentale farlo per premiare la propensione al cambiamento delle persone che vogliono sfruttare lo Smart Working per far risparmiare l’Ente e la collettività, dimostrandogli con ciò fiducia e spingendoli a migliorarsi.

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