oltre l'emergenza

Coronavirus Fase 2, la pianificazione necessaria e gli errori da non ripetere

L’epidemia SARS aveva portato sia l’OMS sia la comunità scientifica a prefigurare modelli di sorveglianza e di allerta a livello internazionale. Il mondo però li ha ignorati e ora si cercano strumenti nuovi per affrontare la fase di uscita dalla quarantena. Vediamo quali sono, i rischi e i vantaggi

Pubblicato il 20 Apr 2020

Mario Dal Co

Economista e manager, già direttore dell’Agenzia per l’innovazione

covid19

Per la fase 2 della lotta al coronavirus dovremo fare all’opposto di quanto fatto finora. Serve una pianificazione, una risposta coordinata a livello nazionale e internazionale. Anche con strumenti nuovi, come le soluzioni e app contro il covid-19, che avranno senso solo però all’interno di un piano più strutturato.

Gli errori da non ripetere contro il coronavirus

Per capire il livello di errori e di impreparazione finora avuto, segnaliamo che le linee guida per affrontare il coronavirus esistevano: erano state predisposte dall’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS) anni prima dell’esplosione di quest’ultima pandemia. Eppure, nessuna delle attività di preparazione è stata realizzata, e non solo nel nostro paese, ma in gran parte dei paesi occidentali e nell’Unione europea.

Come altre istituzioni internazionali, anche l’OMS viene criticata, in particolare dagli evangelici americani che sostengono Donald Trump, per essersi dimostrata troppo compiacente con la gestione dell’epidemia da parte del governo cinese e per la sua inadeguatezza di fronte alle sfide della globalizzazione in materia di salute.

Eppure, è evidente che senza un luogo di cooperazione internazionale è impossibile affrontare in modo efficace una pandemia, soprattutto se, come sarà chiaro tra qualche settimana, i costi della quarantena generalizzata risulteranno di un peso insopportabile.

Allora si vorrà sviluppare il famoso modello coreano, ma occorreranno infrastrutture tecnologiche e nuove norme, che semplifichino, senza perdere di vista la privacy e la sicurezza.

Vediamo quali sono le risposte al Covid-19 a livello globale (e in ordine sparso) e quali strumento potrebbero aiutare ad affrontare il post-quarantena.

Le risposte del mondo al covid-19

La Cina era stata criticata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO) a causa della resistenza iniziale nella comunicazione delle informazioni sull’epidemia della SARS, nell’aprile 2003. Non volendo ripetere questa negativa esperienza, alla fine del 2019, salvo qualche esitazione dei dirigenti locali di Wuhan, dove il virus è stato isolato per la prima volta, la reazione cinese all’esplosione della epidemia (COVID-19) della malattia determinata dal nuovo coronavirus (SARS-CoV-2) è stata più collaborativa.

Inoltre, Pechino ha adottato quelle che, secondo Boris Johnson ed altri leader come Donald Trump, erano misure draconiane, poco compatibili con gli standard dei paesi democratici, ossia la quarantena generalizzata, il blocco dei trasporti, l’isolamento sociale, la chiusura delle attività non essenziali, l’uso del tracciamento dei dati telefonici per individuare i possibili focolai di contagio.

La Cina rappresenta, nell’epidemia di coronavirus attuale, un primo modello di risposta, quello della soppressione dell’epidemia: strumenti di quarantena tradizionali, applicati in modo severo e prolungato. Gli effetti sembrano aver dato ragione a queste scelte. A quali costi? Molto elevati, sia in termini di perduta libertà delle persone, sia in termini di perduta produzione per le famiglie le imprese e, di conseguenza, di entrate per lo Stato.

La Corea, inizialmente il secondo paese più colpito, ha seguito una strada diversa: era preparata dall’esperienza della SARS, ha attivato una rete di pronto intervento per individuare i casi infetti, isolarli, ricostruire i loro contatti e quindi il loro effetto diffusivo, ha integrato le informazioni di telecamere, pagamenti elettronici, contatti e movimenti dei cellulari per mappare il rischio di contagio, rendendo disponibili al pubblico le informazioni sulle prossimità rischiose. È il secondo modello di risposta, quello del controllo dell’epidemia, nel quale l’effetto di contenimento del fattore moltiplicativo (il famoso R0 ovvero numero di contagi di cui mediamente è responsabile una singola persona infetta) è affidato all’intelligence, alle tecnologie, all’organizzazione assai più che alla quarantena, che viene applicata solo ai contagiati, mentre le attività economiche e commerciali procedono, non come se niente fosse, ma con forte responsabilizzazione collettiva e individuale nei comportamenti. Gli effetti sembrano addirittura superiori a quelli del blocco totale, probabilmente con minori costi economici e sociali (perdita di libertà individuale).

Infine, i due principali paesi anglosassoni, Regno Unito e Stati Uniti, hanno pensato di poter seguire un terzo modello di risposta: gestire l’epidemia COVID-19 come una normale influenza, per altro priva di vaccino, lasciandola correre (queste erano le parole di Boris Johnson prima di essere egli stesso ricoverato perché positivo) nella società, in modo da elevare l’immunità di gregge, proteggendo su base sostanzialmente volontaria, le fasce più fragili, ossia gli anziani e i malati. Altri paesi, come la Svezia e l’Olanda

hanno provato a seguire questo modello. Esso, fino ad ora, ha dato un solo risultato certo, quello di ritardare l’adozione di misure di quarantena, far fare ai due massimi sostenitori, Johnson e Trump una conversione ad u, con un cambio di rotta confuso e comunque portatore di ulteriori ritardi.

L’Italia non può essere considerata un modello. Il Paese ha agito in ritardo e in modo disorganizzato, tanto che perfino la sanità della Lombardia, riconosciuta come struttura efficiente, si è trovata impreparata. Meglio ha fatto, probabilmente, il Veneto, che ha effettuato più controlli con i test e ha attivato gli ospedali con maggiore attenzione e cautela della Lombardia, evitando di trasformarli in punti di diffusione del contagio.

Diagnosi, cura, isolamento: la strada obbligata

L’avvio dell’epidemiologia moderna viene fatto risalire al dr John Snow, che nel 1854 verificò la validità della sua teoria sul contagio del colera durante l’epidemia che colpì alcuni quartieri di Londra. Aveva notato da anni che la qualità dell’acqua delle diverse compagnie di acquedotti aveva una relazione con la diffusione del colera. Avena notato che l’acqua prelevata vicino agli scarichi delle fogne era la probabile causa della diffusione del contagio. Ciò andava contro la teoria prevalente all’epoca, che riteneva i “miasmi” ossia l’aria cattiva, una condizione generale per la diffusione di ogni tipo di malattia epidemica.

Nel 1854 Snow intervistò tutti gli abitanti del quartiere in cui più diffuso era il contagio, documentò i comportamenti degli ammalati, quasi sempre deceduti, con una accurata ricostruzione e mappatura dei loro spostamenti, dei loro contatti, dei loro approvvigionamenti di acqua. E concluse che quell’esplosione locale era determinata da una fontana, il cui pozzo era, a suo giudizio, inquinato da percolazioni di scarichi, in cui erano finite le deiezioni del primo ammalato (il paziente zero). Bastò togliere la maniglia alla pompa di quella fontana per vedere fermarsi la diffusione del contagio.

Questa storia, che conoscono tutti gli epidemiologi del mondo, ci ricorda da vicino le vicende recenti:

  • la ricerca del paziente zero,
  • la catena delle relazioni dei contagiati,
  • l’isolamento dalle fonti di contagio.

Nelle testimonianze dei dottori coreani che hanno contrastato, in modo encomiabile, la diffusione del SARS-CoV-2, spicca quella di chi ha definito la propria attività, come quella di un detective, alla ricerca della concatenazione e della rete del contagio, per poterla interrompere puntualmente, non ricorrendo alla generale quarantena, ma mirando gli interventi di diagnosi, cura, isolamento.

Questa strada diverrà la strada obbligata che dovrà essere percorsa in futuro per contrastare le prossime epidemie. Ma questa strada richiede una dotazione di nuovi strumenti e di nuove reti intelligenti, che questa epidemia, in cui ora ci dobbiamo districare, rischia di rallentare.

Ci sono notizie di rallentamento del 5G in Francia e in altri paesi, speriamo solo temporaneo: quelle reti sono indispensabili per due interventi essenziali nell’affrontare le future crisi sanitarie globali:

  • il tracciamento della mobilità e dei contatti dei telefoni mobili, arricchita dalle informazioni sulle caratteristiche sanitarie dei soggetti;
  • la diffusione di una telemedicina di facile accesso, mirata a controllare parametri e condizioni degli assistiti in remoto, consentendo di evitare l’ingorgo delle strutture di accoglienza ospedaliere, sempre più dedicate alle terapie intensive e semi-intensive.

Perché il mondo ha ignorato le linee guida OMS

Con l’eccezione del modello adottato dalla Corea, si può concludere che qualunque altra scelta è stata guidata, nella esplosione della nuova epidemia, dal problema di far fronte innanzitutto alla propria impreparazione: tutti i paesi si sono trovati impreparati per numero di posti letto in terapia intensiva, strumenti di protezione e di cura, piani di attuazione e di comunicazione delle misure di quarantena adottate.

Eppure la SARS aveva portato sia la WHO sia la comunità scientifica a prefigurare modelli di sorveglianza e di allerta a livello internazionale: “Se stai pensando in modo intelligente a quali tipi di sorveglianza delle malattie infettive devono essere posti in atto, allora sai che i luoghi in cui è meno probabile che tu abbia la sorveglianza – i luoghi in cui vi sono più disagi sociali e maggior stress economico – quelli sono i luoghi in cui è più probabile che emergano malattie. Questo ci dice come, a livello globale, dovremmo organizzare la sorveglianza e ci dimostra l’inadeguatezza dell’approccio semplicemente nazionale al controllo delle malattie infettive”[1].

La SARS è stata sconfitta con i sistemi tradizionali della quarantena e con una mobilitazione efficace della WHO, allora ancora non penalizzata dagli effetti del tetto nominale sulle quote di finanziamento ordinario dei paesi membri. La sua diffusione è stata molto contenuta, 8.000 casi con 800 vittime, eppure era stata in grado di metter in crisi la sanità, il turismo, i trasporti.

La WHO aveva tradotto gli insegnamenti della SARS, e delle altre epidemie del ventunesimo secolo, in una eccellente guida[2] su come prepararsi all’epidemia prossima ventura.

Si potrebbero riportare innumerevoli citazioni a proposito di ciò che si dovrà fare, si doveva fare, per prepararsi all’arrivo dell’epidemia. Che essa a breve sarebbe arrivata, improvvisa e sconvolgente, tutti gli scienziati se lo aspettavano. Continuava il documento WHO: “Dovrebbero essere realizzati investimenti sostanziali a lungo termine per rafforzare i sistemi sanitari e renderli capaci di fornire servizi sanitari efficaci e di qualità prima, durante e dopo le epidemie. Tra i fattori critici includiamo un adeguato sistema di finanziamento della salute e una forza lavoro adatta, addestrata, sicura e dotata di strumenti di protezione personale. Inoltre, l’accesso ai prodotti e alle tecnologie mediche e il piano di continuità aziendale sono essenziali per garantire che i sistemi sanitari siano abbastanza robusti da resistere alle crescenti esigenze e mitigare gli impatti di epidemie molto dirompenti.”

Strumenti nuovi per il dopo quarantena

Ora, diversi governi puntano a dotarsi di strumenti nuovi, per riuscire ad affrontare la fase di uscita dalla quarantena generalizzata.

Le società telefoniche e gli over the top ci stanno lavorando. Facebook e Google hanno diffuso mappe di spostamento delle persone, in forma aggregata e anonima, già utilizzate dal governo americano per capire dove ci sono casi di assembramento anomalo e pericoloso.

Gli strumenti sono a portata di mano, e il loro contributo sarà essenziale.

Il lavoro del dr Snow, che andava di casa in casa nel mezzo dell’epidemia di colera sarà esteso e migliorato dai nuovi strumenti di tracciamento, georeferenziazione, analisi dei big data. Sarebbe un compito da affidare alla WHO quello di definire gli standard internazionali di comunicazione, le best practice, gli standard di tutela della privacy, gli standard di sicurezza, in modo da evitare l’incartamento nelle norme nazionali. Si tratta di un terreno assai delicato anche per la tentazione, che si è bena manifestata durante questa pandemia, di alcuni governi, di avvalersi della paura per operazioni politiche che offendono la democrazia.

Coronavirus, app e sistemi per tracciare i positivi: come funzionano (nel mondo, in Italia)

Monitoraggio e contrasto dell’epidemia: tre esempi

L’Imperial College, che ha dato indicazioni decisive sull’impatto della nuova pandemia, tali da far rientrare le primitive opzioni di “herd immunity” di Boris Jonhson e Donald Trump, ha posto alcuni temi ai governi che vogliono affrontare in modo innovativo il tema del monitoraggio e contrasto dell’epidemia[3].

Le aree interessate sono:

  • gli utenti che installano le app;
  • le autorità che gestiscono il server centrale che coordina il tracciamento;
  • enti esterni, come hacker, aziende interessate a raccogliere dati o a manomettere la tracciabilità.

Ci possono essere tre semplici modalità di scambio dei dati:

Primo esempio:

  • un’app registra la propria localizzazione,
  • quando un utente risulta infetto, l’app invia i dati di localizzazione e di tempo all’autorità,
  • le autorità condividono con tutti gli utenti le traiettorie (diverse localizzazioni nel tempo) dei soggetti infetti, perché gli utenti possano verificare se sono venuti in contatto con qualche infetto, dove e quando.

Secondo esempio:

  • un’app trasmette un identificatore unico assegnato dall’autorità via bluetooth,
  • quando due telefoni dotati di app sono vicini si scambiano le identità,
  • se un utente risulta infetto, l’app invia all’autorità tutte le identità che ha incontrato,
  • l’autorità contatta tutti coloro le cui identità hanno avuto prossimità con l’utente contagiato.

Terzo esempio: come il secondo ma con un identificatore che cambia ogni ora.

I rischi

Rischio di raccolta di dati su larga scala. È chiaro che nel primo esempio l’autorità raccoglie su larga scala i dati personali e ciò rischia di portare a una sorveglianza di massa.

L’autorità infatti conosce tutte le traiettorie degli utenti infetti. Nel secondo esempio esse hanno il grafo degli identificatori, e possono facilmente risalire alle identità ricostruendo le traiettorie che sono molto personali. Il terzo esempio è il migliore poiché le autorità osservano solo la mappa degli pseudonimi infetti.

Rischio di violazione della privacy. Il primo esempio non fornisce all’autorità l’identità degli utenti, ma essa può essere ricostruita conoscendo il tracciamento che è molto personalizzato. Il secondo esempio è ancora peggio, poiché gli utenti ricevono un identificatore dall’autorità, che può legarle al telefono.

Il terzo esempio è molto migliore poiché protegge l’identità dell’utente.

Rischio di rivelare all’autorità l’identità degli utenti a rischio. Gli esempi uno e due non richiedono dati dai non infetti, mentre il terzo, in cui l’autorità contatta le persone a rischio, può dar luogo a pressioni perché si mettano in quarantena.

Rischio di identificare chi è infetto o a rischio da parte dell’utente.

L’esempio da accesso alle informazioni degli infetti, mentre l’esempio 3 consente ad un utente a rischio di saper l’ora in cui ha incontrato un utente infetto e in tal modo può risalire alla sua identità. Mentre l’esempio 2 non consente agli utenti di sapere nulla gli uni degli altri.

Infine, occorre che il sistema sia protetto dal punto di vista della cyber security. Le app diffuse sono un facile punto di ingresso per attacchi alla privacy e non solo. Basta, secondo la ricerca dell’Imperial College) che l’1% dei telefoni della popolazione di Londra siano dotati di un un tracciatore, per poter ricostruire la mappa delle posizioni e delle tracce di metà della città.

Per garantire che il sistema riscuota fiducia, occorre una comunicazione e una gestione trasparente del suo funzionamento, con verifiche costanti e pubblicazione dei dati a periodicità molto ravvicinata.

Coronavirus, app e sistemi per tracciare i positivi: come funzionano (nel mondo, in Italia)

  1. Jonathan Shaw, The SARS Scare, Harvard Magazine, March-April 2007, p. 95.
  2. WHO, Managing epidemics: key facts about major deadly diseases. Geneva, 2018. Licence: CC BY-NC-SA 3.0 IGO.
  3. Yves-Alexandre de Montjoye, Florimond Houisiau, Andrea Gradotti and Florent Guepin, Evaluating COVID-19 contact tracing apps? Here are 8 privacy questions we think you should ask., Apr. 2 2020., https://cpg.doc.ic.ac.uk/blog/evaluating-contact-tracing-apps-here-are-8-privacy-questions-we-think-you-should-ask/

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