Festa dei lavoratori

Primo maggio ai tempi del covid: per un lavoro che sia di nuovo “umano”

In questa pandemia abbiamo riscoperto l’importanza del lavoro ‘umano’, fatto dalle persone. Abbiamo scoperto che come umani siamo fragili, che like e selfie non servono se non abbiamo cura, responsabilità e un ambiente sano. Cogliamo allora l’occasione per immaginare un lavoro che sia di nuovo un ‘diritto’ e non una ‘merce’

Pubblicato il 01 Mag 2020

Lelio Demichelis

Docente di Sociologia economica Dipartimento di Economia- Università degli Studi dell’Insubria

primomaggio

Primo maggio, Festa dei lavoratori e delle lavoratrici. Oggi la festa di tutti coloro che sono sopravvissuti alla guerra di classe dichiarata dai ricchi contro i lavoratori e il ceto medio da trent’anni a questa parte (“La lotta di classe esiste e l’abbiamo vinta noi”, disse anni fa Warren Buffet, uno degli uomini più ricchi del pianeta). Ma soprattutto festa ‘di e per’ coloro che si trovano oggi piegati dalla pandemia, per i tre milioni di italiani che già hanno ripreso l’attività, per coloro che saranno precarizzati ulteriormente dalle innovazioni tecnologiche in arrivo, per chi si ritrova privato di un reddito e di un diritto umano, quello appunto a un lavoro dignitoso. Una festa anche per ricordarci (dati Caritas) che stanno aumentando drammaticamente i poveri, mentre si allungano le code ai Monti dei pegni.

Una festa per un diritto

Una festa celebrata ogni anno per ricordare le lotte per i diritti dei lavoratori, originariamente nate per la riduzione della durata della giornata lavorativa (mentre oggi, ‘grazie’ alle innovazioni tecnologiche, ci ritroviamo a lavorare h24, senza più distinzione tra ‘tempo di lavoro’ e ‘tempo di vita’). Una festa per tutti noi che ci siamo fatti lavoratori/operai/proletari della rete e dei social producendo/cedendo gratuitamente dati sulla nostra vita che altri mettono a profitto per sé (quindi alienandoci dal nostro lavoro ma soprattutto dalla nostra vita, divenuta anch’essa merce dopo avere noi dovuto vendere il nostro lavoro in cambio di un salario per poi spenderlo per comprare i prodotti che abbiamo contribuito a produrre).

Una festa – anche se virtuale, da remoto – che ‘deve essere’ comunque occasione per ripensare a come è cambiato (in meglio per pochi, in peggio per molti, troppi) il lavoro, e per tornare a immaginare un lavoro che sia di nuovo (come ‘deve essere’, anche perché questo è prescritto dalla nostra Costituzione, riconfermata in massa nel referendum del 2016) un ‘diritto’ e non una ‘merce’ per di più tendenzialmente low cost come è invece diventato negli ultimi trent’anni (e come vorrebbero le imprese e tutti i governi che hanno scelto di trasformarlo in merce, da diritto che era).

Una festa/occasione per pensare soprattutto – ‘complice’ la pandemia – a nuove politiche economiche nuovamente redistributive della ricchezza prodotta e finalizzate alla piena occupazione, recuperando il buono del New Deal e delle politiche keynesiane; introducendo il Green Deal (fonte di milioni di posti di lavoro) e usando la crisi per risolvere non solo la depressione economica pandemica, ma soprattutto il ben più grave e drammatico mutamento climatico: ad esempio attuando il programma – questo sì davvero innovativo, altro che nuove tecnologie, machine learning e Industria 4.0! – stilato dai ‘Giovani per il clima’, ovvero:

  • riconversione ecologica dell’economia e della società (100% di fonti rinnovabili, efficienza energetica degli edifici, ricollocamento dei lavoratori nei nuovi posti di lavoro);
  • intervento pubblico nell’economia (sussidi vincolati alla riduzione degli impatti ambientali e ‘roadmap’ dettagliata e prescrittiva per la transizione ecologica);
  • sinergia tra ‘giustizia climatica e sociale’ (protezione delle fasce più deboli e dei diritti delle future generazioni);
  • trasformazione del sistema agroalimentare evitando sfruttamento e inquinamento di suolo ed ecosistemi;
  • tutela del territorio e contrasto al dissesto idrogeologico;
  • promozione di democrazia, istruzione e ricerca;
  • attuazione di un Green Deal europeo, ma molto più incisivo di quello recentemente approvato e in gran parte dimenticato.

Uscire dalla disruption tecno-capitalista

Una festa che si era già profondamente trasformata in questi ultimi trent’anni di neoliberalismo e di nuove tecnologie. Con il primo, che ha deliberatamente cercato di uccidere/sciogliere il ‘contratto sociale’ (“la società non esiste, esistono solo gli individui” – secondo il ‘dispositivo’ neoliberale), i fondamenti della modernità (libertà, uguaglianza e fraternità/solidarietà) e il compromesso socialdemocratico tra capitale e lavoro dei decenni precedenti, aprendo la strada a un impoverimento di massa e a una disuguaglianza crescente (“la disuguaglianza è stata una scelta politica deliberata”, aveva scritto il Premio Nobel per l’economia, Joseph Stiglitz). Con le seconde che hanno permesso di esternalizzare, individualizzare, suddividere ancor di più il lavoro e i lavoratori, la rete/piattaforma essendo quel ‘mezzo di connessione’ che è ‘mezzo di produzione’ (ogni ‘mezzo di produzione’ è e deve essere in primo luogo un ‘mezzo di connessione’ del lavoro altrui, ieri la catena di montaggio, oggi le piattaforme/Industria 4.0/algoritmi, eccetera): nuovi ‘mezzi di connessione’ che – sempre replicando la ‘legge ferrea’ del tecno-capitalismo (prima suddividere e parcellizzare, per poi connettere/integrare) – permettevano di farlo non più solo dentro fabbriche fisiche, ma anche e sempre più esternalizzando e quindi flessibilizzando/precarizzando lavoro e lavoratori. Nuovi mezzi di connessione/produzione che ci hanno fatto passare dal ‘fordismo concentrato’ delle fabbriche novecentesche non a un virtuoso post-fordismo ma a un ‘fordismo esternalizzato/individualizzato’, realizzandosi (detto altrimenti, con Matteo Gaddi) una riorganizzazione produttiva e del lavoro sempre ‘centralizzata’ (il comando, il controllo anche se da remoto) ma ‘senza concentrazione’ fisica di lavoro e di lavoratori o di produzione.

Divisione/separazione delle persone per integrarle meglio nell’apparato, mettendo inoltre ciascuno in competizione con tutti gli altri e insieme scardinando, indebolendo il potere del sindacato – e così ‘finalmente’ eliminando (‘grazie’ ancora a una tecnica che è a-democratica e anti-democratica in sé e per chi la usa, perché verticalizza appunto il potere e il comando dell’impresa sui lavoratori e i committenti organizzati in just in time e sempre più in just in sequence, oggi appunto via algoritmi/piattaforme), quel ‘fastidioso’ bilanciamento del potere all’interno dei luoghi di lavoro che si chiama sindacato e democrazia in fabbrica. Permettendo di ributtare fuori dai ‘cancelli delle fabbriche o delle piattaforme quella democrazia che era costata decenni di lotte sindacali – e il 30 maggio si celebreranno, ricordiamolo, i 50 anni dallo Statuto dei Lavoratori.

Una ‘legge ferrea’ che non permetterà mai all’uomo – soprattutto se si fa feticista della tecnica/tecnologia – di liberarsi dalla fatica e dal lavoro: perché nella ‘essenza’ della tecnica è implicito lo sfruttamento sempre crescente del lavoro, del tempo di lavoro e di vita e della natura, con la riduzione dei tempi morti e l’intensificazione dei tempi-ciclo, il non doversi fermare mai e il dover correre/produrre/consumare sempre più in fretta. E ciò – sarebbe tempo di capirlo – è in conflitto strutturale con la biosfera.

Non solo: se il capitalismo potrà avere sempre meno bisogno di lavoratori umani, sostituibili da robot, avrà sempre bisogno di ciascuno di noi che produce dati per il ‘capitalismo della sorveglianza’ secondo Shoshana Zuboff (e oggi abbiamo l’integrazione sistemica tra capitalismo industriale, dei consumi, dei servizi con il ‘capitalismo dei dati’, cioè la messa al lavoro di ciascuno appunto nella ‘Grande fabbrica integrata’ chiamata rete. Dove – se i dati sono davvero il ‘nuovo petrolio’ che fa funzionare il capitalismo – noi siamo gli ‘addetti alle trivelle di noi stessi’.

Trent’anni di retoriche del ‘nuovo per il nuovo’. E ora?

Di più: per trent’anni abbiamo vissuto sommersi quotidianamente dalle retoriche/tsunami del ‘nuovo per il nuovo’, dimenticando appunto quanto di ‘vecchio’ fordismo e di ‘vecchio’ taylorismo ci fosse e ci sia nel capitalismo delle piattaforme e nell’Industria 4.0 – è sempre la ‘legge ferrea’ del lavoro industriale che ci perseguita dall’inizio della rivoluzione industriale iniziata circa tre secoli fa. Una ‘legge’ sempre meglio mascherata dalle retoriche che volevano e vogliono venderci l’idea di un lavoro che ‘grazie’ alle nuove tecnologie sarebbe diventato lavoro di conoscenza (in realtà contano sempre le competenze a fare e a fare sempre più velocemente, la conoscenze e la consapevolezza del fare sono scomparse), lavoro immateriale e creativo, capitalismo intellettuale, ciascuno che può diventare virtuoso imprenditore di se stesso e non più sfruttato lavoratore subordinato, ogni impresa una altrettanto virtuosa comunità di lavoro. E così ci siamo ritrovati – in pochi e inascoltati lo avevamo previsto (ovvero: “la rete è la nuova catena di montaggio”) – con una Industria 4.0 che è soprattutto taylorismo digitale, con lo sfruttamento ottocentesco delle persone praticato nel capitalismo delle piattaforme, con una rete diventata appunto Fabbrica integrata globale con lunghe catene del valore ma soprattutto a ‘mobilitazione totale e globale’, con la vita intera di tutti messa al lavoro per realizzare il profitto di pochi. Per cui, paradossalmente e con imbarazzo, per capire come è cambiato il lavoro (e i lavoratori) dobbiamo recuperare anche concetti marxiani ottocenteschi come alienazione, sussunzione, sfruttamento, estensione della giornata lavorativa alle 24 ore, accrescimento incessante del pluslavoro, lavoro diffuso/a domicilio oggi ribattezzato smart-working (ma non basta un pc o Teams per renderlo intelligente, anzi).

Le persone, prima di tutto

La crisi del lavoro dura quindi da molto tempo: ai due fattori visti sopra – l’ideologia neoliberale disuguagliante e impoverente (ricordiamo che Margaret Thatcher riuscì a ridurre il tasso ufficiale di disoccupazione in GB tra il 1979 e il 1997 solo modificando 32 volte i suoi criteri di rilevazione, escludendo progressivamente dal conteggio diverse categorie di disoccupati); e le nuove tecnologie che hanno permesso di automatizzare ancora di più la produzione e il consumo e di accrescere lo sfruttamento (non sapremmo come chiamarlo altrimenti) del lavoro – ora si aggiunge la pandemia. Quella sanitaria, quella sociale/occupazionale, quella della povertà.

Forse abbiamo sbagliato ‘qualcosa’, in questi trent’anni. Anche la rivista del Mit americano scrive che Covid-19 ha “ucciso il mito della Silicon Valley” perché, inseguendo l’innovazione tecnologica, l’artificiale e il virtuale, l’AI e l’Iot abbiamo dimenticato di produrre tamponi e mascherine protettive. E anche l’industria della Silicon Valley, che pure si è offerta di mettere a disposizione i nostri dati, “si è rivelata impotente davanti al Covid e ad una crisi sanitaria”. È dunque tempo di buttare nel cestino (virtuale e reale) le retoriche e il mito dell’innovazione ‘nata in un garage’ e tornare a investire – lo suggerisce sempre il Mit – nell’ambiente, nella cura delle persone, sulla società/socialità non virtuale, sui diritti delle persone e non sui profitti dell’oligopolio della Silicon Valley.

Il lato umano del lavoro

In questa pandemia abbiamo riscoperto l’importanza del lavoro ‘umano’ (medici, infermieri e non solo); abbiamo capito l’essenzialità di operai/impiegati e dei tecnici, delle commesse dei supermercati, cioè del lavoro delle persone (che avevamo dimenticato, al più pensando di ibridarle/sussumerle sempre più con robot/AI). Abbiamo scoperto soprattutto – anche questo lo avevamo dimenticato, soggiogati dalla volontà di onnipotenza offertaci dalla tecnica – che come umani siamo fragili, che non possiamo vivere solo di like e di selfie perché abbiamo bisogno di cura e di responsabilità e di un ambiente sano; che dobbiamo smetterla di insegnare il ‘learning by doing’ e dobbiamo investire invece, e farlo in fretta, in ‘knowledge by thinking for then doing (better and with responsability)’; che le filiere produttive devono essere accorciate e rese qualitativamente migliori; che l’innovazione non è qualcosa a cui dobbiamo solo ‘adattarci’ – anche se molti già immaginano che proprio la pandemia spingerà ancora di più l’economia capitalistica, basata sulla massimizzazione del profitto privato, verso ulteriore digitalizzazione/robotizzazione e quindi verso ulteriore disoccupazione – ma per la quale deve valere, prima della sua introduzione sul/nel lavoro, quella che il sindacato chiama ‘contrattazione d’anticipo‘, contrattare cioè l’introduzione di una innovazione tecnica e/o organizzativa ‘prima’ che sia introdotta (ma il principio dovrebbe riguardare più in generale anche la democrazia e la ‘polis’ nei confronti della tecnica, posto che ‘questa’ tecnica non è la tecnica dell’aratro né della macchina da scrivere, né di radio e tv); o il principio esplicitato dal filosofo Salvatore Veca: ‘No Innovation without Representation and Participation’.

Recuperando, ora che ci siamo (forse) riscoperti ‘umani‘ una ‘possibilità’ e soprattutto una ‘capacità’ di immaginare e poi di ‘governare democraticamente’, dentro e fuori dai luoghi di lavoro – i processi tecno-capitalistici (senza più lasciarci dominare da poteri che non controlliamo). Per ‘restare umani’, anche domani. Non dimenticando mai che l’articolo 41 della Costituzione prescrive che ‘l’iniziativa economica privata è libera ma non deve svolgersi in contrasto con l’utilità sociale’.

Ripartire ‘in fretta e come prima’ sarebbe come continuare il viaggio sul Titanic, mentre l’orchestra suona.

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