la proposta

Ferraris: “Salario di mobilitazione: un’idea per i nuovi poveri dell’era digitale”

La trasformazione digitale rischia di aumentare le disparità tra popoli e nelle società. Lavoriamo tutti sempre, gratis, fabbricando dati per le multinazionali del web: siamo “mobilitati”. Ma se il reddito di cittadinanza non è praticabile, adottiamo il “salario di mobilitazione”, con una speciale tassazione sul web

Pubblicato il 22 Giu 2018

Maurizio Ferraris

professore ordinario di filosofia teoretica presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Torino

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La rivoluzione documediale (di cui qui si parla per esteso) ha comportato il riconoscimento del principio “a ognuno secondo le sue capacità” (spariscono le rendite di posizione), anche se siamo ben lontani dall’affermazione del principio “a ognuno secondo le sue necessità”. Il che è particolarmente drammatico se si considera che le capacità richieste dal mondo documediale sono estremamente più sofisticate di quelle richieste da qualsiasi società precedente. Una parte crescente di umanità viene scacciata dal mondo del lavoro e attribuisce la responsabilità di quanto accade a entità numinose e vaghe: l’Europa, il Capitale, i Migranti.

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Ma come spesso avviene questi obiettivi polemici distraggono dal riconoscimento di qualcosa di molto più importante, e cioè appunto il lavoro sommerso che ha luogo attraverso la mobilitazione. Anche in questo caso, con un errore concettuale, la rivendicazione contro il Web consiste nel dire che noi siamo i prodotti, mentre bisognerebbe riconoscere che noi siamo i produttori. È certamente un errore concettuale sostenere che il prodotto siamo noi (visto che non siamo in una economia schiavista), ma non è un errore sostenere che noi siamo i produttori, cioè che lavoriamo, nella fattispecie gratis e pagando di tasca nostra i mezzi di produzione, fabbricando dati. È vero che quei dati noi non sapremmo come adoperarli, e che senza i Four non sarebbero nemmeno raccolti. Ma è anche vero che senza di noi i dati non ci sarebbero. È una situazione non così diversa dal classico rapporto tra capitale e lavoro, con una variante importantissima, e cioè che qui il lavoro non viene retribuito.

Riconoscere la mobilitazione come lavoro

Come riconoscere la mobilitazione come lavoro? Inutile pensare a una rivoluzione, il conflitto sociale appartiene ormai al passato, e le condizioni attuali di frammentazione non lo rendono più possibile. Se dunque ci si limita a deprecare il presente e a invocare la rivoluzione si mente sapendo di mentire se si è intelligenti, ci si inganna da soli nel resto dei casi. Si deve immaginare una azione gestita dai governi. Ma in che termini? L’imposta progressiva sul capitale a livello globale (Piketty) non è attuabile perché presuppone una concordia politica mondiale per definizione inattingibile. La riduzione dell’orario di lavoro (De Masi) è stata attuata in Francia e in Germania ma non ha prodotto i risultati attesi. Il reddito di cittadinanza (variamente rivendicato da due secoli a questa parte) è ingiusto moralmente (si paga il lavoro, non l’esserci, a meno che non si abbracci l’ipotesi della condivisione proprietaria della terra avanzata da Thomas Paine più di due secoli fa) e inattuabile politicamente, specie in un paese come l’Italia in cui un terzo del lavoro è in nero e metà del gettito fiscale è evasa, oltre a portarsi addosso un enorme debito pubblico. Inoltre il lavoro non va cercato attraverso politiche volte ad aumentare i pochi lavoratori delle compagnie web. Questo non farebbe che rendere meno redditizio il web, e a diminuirne l’efficienza. Non si potrà mai pensare che il numero dei lavoratori web sia pari a quello degli agricoltori o degli operai, visto che la logica è quella di una radicale e progressiva riduzione del lavoro vivo. E non è neppure opportuno, come propone Bill Gates, istituire una robotax che renda più vantaggioso il lavoro umano: sarebbe una attitudine regressiva che si limiterebbe a frenare lo sviluppo (ed è il motivo per cui i governi non hanno accolto la proposta).

Lavoro biopolitico

Il lavoro è invece quello, in buona parte nascosto, che si manifesta come mobilitazione in atto nel web. Questa mobilitazione è, esattamente come il consumo, un elemento necessario del mercato e del lavoro e del concetto stesso di lavoro. Non si può pensare al lavoro senza l’uomo, perché una macchina che produce qualcosa non sta lavorando. Il lavoro inizia quando c’è un’interazione tra la macchina e l’uomo, sono le condizioni dell’uso umano che definiscono in generale l’attività industriale. In effetti, essendo il lavoro definito intrinsecamente nel rapporto tra un uomo e la macchina chi interagisce sui dispositivi sta lavorando, sta producendo ricchezza. Non è l’intelligenza che sancisce la superiorità dell’uomo sulle macchine, le macchine infatti sono intelligenti, ma sono il corpo, le percezioni e un tempo di vita finito propri dell’uomo, organismo responsivo a differenza della macchina. Abbiamo un chiarimento circa la natura del lavoro biopolitico: si tratta di mobilitazione, una mobilitazione che non è forzata autoritariamente, né è l’esplosione di una qualche affermatività gioiosa e improbabile, bensì un fenomeno più contorto e complesso, che merita di essere scomposto nei suoi componenti essenziali. La produzione dell’uomo attraverso l’uomo non è soltanto l’ingenuità del mondo dello spirito, di una umanità schillerianamente realizzata: sono i viaggi, le discoteche, i ristoranti, il vino, l’alta cucina, la moda, il sesso estremo, la droga, tutto ciò che un castoro non desidererebbe, che i moralisti condannano come consumismo o degenerazione, ma che in effetti definiscono la massima impresa commerciale dei nostri tempi. Attualizzazione e modernizzazione del consumo come lavoro a domicilio è l’influencer, che crea ricchezza non solo attraverso il consumo, ma attraverso la documentazione di quel consumo. È un consumatore che monetizza il proprio consumo. Viceversa, il blogger crea ricchezza attraverso la semplice documentazione del consumo. È un consumatore che non monetizza il proprio consumo. Per parte sua, il runner crea ricchezza attraverso la salute, e dunque lo sgravio in prospettiva delle spese sanitarie (o delle spese pensionistiche se, come talora avviene, muore).

Salario di mobilitazione

Si tratta dunque di riconoscere un lavoro, definendolo come “salario di mobilitazione”. Si tratterebbe non di un problematico reddito di cittadinanza, regalia politica e promessa che non si può mantenere se si fa conto sulle casse dello Stato, ma un compenso offerto dalle compagnie web su richiesta dell’Europa. Invece che estenuarsi in giaculatorie contro il Kapitale, maledizioni dell’Europa e nuove exenofobie, la vera azione politica deve orientarsi – in una strategia coordinata dall’Europa – nel riconoscimento del lavoro che ognuno di noi svolge sul web, producendo dati, che sono la vera ricchezza in questo momento. E dunque nella redistribuzione di questo utile da parte delle grandi compagnie del web, alle quali, non dimentichiamolo, regaliamo i nostri dati (oltre che il nostro lavoro), mentre, per esempio, alle banche ci limitiamo a prestare i nostri soldi. Si tratterebbe di un eurodividendo attribuito dalla Ue dai proventi ricavati dalla specifica tassazione sul Web. E precisamente sulle imprese superstar che ottengono profitti senza precedenti e operano in assenza di concorrenza, come Google, Apple, Facebook, che si trovano nella situazione “il vincitore piglia tutto”. La ricchezza economica di queste compagnie non è sufficientemente rappresentata perché operano strategie fiscali molto avvedute e reinvestono nella ricerca e nello sviluppo grandissima parte degli utili. Ciò le rende dinamiche, ma questo dinamismo non sarebbe minimamente intaccato (anzi, eliminerebbe le spese legate a contenziosi legali e a conflitti politici) se le imprese superstar finanziassero il salario di mobilitazione. Il potere contrattuale per indurle a ciò nascerebbe dal fatto che la Ue ha una forte massa demografica, rilevante in termini di dati: 508 milioni di abitanti, al terzo posto dopo la Cina e l’India.

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