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Riders, ma quali diritti per i lavoratori: il grande caos tra proposte di legge e promesse (del Governo) tradite

Una proposta di legge dei rider prova a porre rimedio alla mistificazione del rapporto di lavoro e alla totale deresponsabilizzazione delle aziende della gig economy, da Uber a Foodora. Il tutto dopo la marcia indietro del Governo, che aveva cercato di porre l’attenzione sul tema nel decreto Dignità. Ecco lo stato del caos

Pubblicato il 04 Gen 2019

Alessia Consiglio

avvocato, diritto sul lavoro digitale

gig-economy2

Equiparazione dei riders ai lavoratori subordinati; divieto di retribuzione a consegnaregolamentazione degli algoritmi usati per assegnare i turni e per valutare le prestazioniriconoscimento per i riders del diritto alle ferie, del periodo di comporto retribuito, del congedo di maternità, il riconoscimento della tutela per gli infortuni sul lavoro e le assicurazioni obbligatorie per danni verso terzi, anche clienti, a carico della piattaforma; diritto alla disconnessione per almeno undici ore consecutive, da parte della app ogni 24 ore.

Sono questi i punti salienti della proposta di legge elaborata dalla piattaforma di Deliverance Milano e condivisa dalle altre rappresentanze territoriali dei riders. Ed è esemplificativa dello scenario che stiamo vivendo: va compresa in un contesto di assoluta confusione normativa (e governativa) su un tema così critico per il futuro del lavoro nell’economia digitale, a partire da rider e autisti di Uber.

In questi stessi giorni si metabolizza infatti il passo indietro del Governo sul tema diritti di questi lavoratori, avendolo espunto dal Decreto Dignità.

La proposta di legge è stata presentata proprio al ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico lo scorso 18 dicembre, lo stesso giorno in cui si è, invece, consumato l’ennesimo strappo di Deliveroo – che ha unilateralmente annunciato ai propri fattorini il passaggio dal primo gennaio 2019, senza possibilità di contraddittorio, al pagamento a consegna (ossia al vecchio pagamento a cottimo).

La proposta dei riders

  • All’art. 1 l’equiparazione dei riders ai lavoratori subordinati:

Il riconoscimento di contratto di lavoro subordinato, quindi, per tutti i dipendenti-fattorini che si obbligano “dietro retribuzione, a collaborare nell’impresa prestando la propria attività lavorativa intellettuale o manuale sulla base dell’inserimento nella struttura c.d. ‘di piattaforma’ e con utilizzo di programmazione informatica e/o di organizzazione informatica precostituita dall’impresa, con messa a disposizione del proprio tempo e delle proprie energie lavorative, organizzate e direzionate dall’imprenditore”. Laddove sussistano le esigenze commerciali e degli obiettivi dell’impresa medesima; la strumentazione, anche digitale ed informatica, con cui l’imprenditore gestisce il raggiungimento dei suddetti obiettivi e dirige e coordina le energie lavorative del lavoratore, stabilendo tempi e modalità di esecuzione della prestazione lavorativa.

Il fattorino, accettando di essere organizzato e diretto a distanza dal datore di lavoro, dovrà essere qualificato come un lavoratore soggetto al potere organizzativo e conformativo dall’app unica e vera datrice di lavoro. Un’affermazione di principio nodale se si considera che una delle principali contestazioni mosse dai legali delle piattaforme era proprio l’assenza di eterorganizzazione e soggezione alla determinazione dei tempi e dei luoghi delle collaborazioni poste in essere dalle app.

Al secondo comma, invece, la definizione di piattaforme digitali ossia “i programmi delle imprese che, indipendentemente dal luogo di stabilimento, mettono in relazione a distanza per via elettronica l’impresa, il collaboratore ed il cliente finale, per la vendita di un bene, la prestazione di un servizio, lo scambio o la condivisione di un bene o di un servizio, determinando le caratteristiche della prestazione del servizio che sarà fornito o del bene che sarà venduto e fissandone il prezzo”.

  • All’art. 2 il divieto di retribuzione a cottimo, ovvero il divieto dei pagamenti a consegna:

Recuperando il fondamentale art. 36 della costituzione, la retribuzione della prestazione non potrà essere inferiore ai minimi tabellari previsti per analoghe attività dai contratti nazionali di settore, in questo caso il ccnl logistica, sottoscritti dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative. Non sarà, inoltre, più consentito retribuire le prestazioni on demand in base al risultato dell’attività svolta; perciò nulle e prive di efficacia dovranno considerarsi le pattuizioni individuali o collettive che prevedano queste forme di retribuzione.

  • All’art. 3 la regolamentazione degli algoritmi usati per assegnare i turni e per valutare le prestazioni dei riders:

La proposta di legge chiede, in aggiunta, di sperimentare gli algoritmi che gestiscono il funzionamento delle piattaforme e di applicarli solo dopo che i risultati dei test siano stati condivisi con i sindacati. Un altro, questo, degli argomenti principali nelle rivendicazioni dei riders e che sta destando sempre maggiori preoccupazioni in ordine al rispetto della parità di trattamento, alle discriminazioni, l’inosservanza della privacy dei fattorini. Notizia recente, infatti, è l’avvio di un procedimento sanzionatorio, da parte del Garante privacy, per la presunta violazione del Gdpr posta in essere da un’altra celeberrima app, Uber, che sembrerebbe fornire ai suoi prestatori un’informativa incompleta, trattarne i dati senza un valido consenso e geo-localizzarli senza una relativa notifica.

  • All’art. 4 la disciplina in materia di orario di lavoro, indennità di disponibilità, ferie e sospensione del rapporto di lavoro:

Il riconoscimento per i riders del diritto alle ferie, del periodo di comporto retribuito, del congedo di maternità, il riconoscimento della tutela per gli infortuni sul lavoro e le assicurazioni obbligatorie per danni verso terzi, anche clienti, a carico della piattaforma. Ma anche il riconoscimento, come orario di lavoro, dell’arco di tempo tra l’accettazione dell’ordine e il suo recapito, introducendo, fra l’altro, il diritto a rifiutare per motivi personali di effettuare la consegna, senza conseguenze disciplinari sul lavoratore.

  • All’art. 5 il diritto alla disconnessione:

viene sancito, infine, il diritto alla disconnessione per almeno undici ore consecutive, da parte della app ogni 24 ore, a partire dal momento dell’effettuazione dell’ultimo turno di lavoro e, per la piattaforma violi tali disposizioni, multe da 250 euro a 1.250 euro.

La prestazione del lavoratore dovrà essere coperta da un’assicurazione obbligatoria di garanzia nei confronti di terzi, anche utenti, il cui costo sarà a carico dell’app inderogabilmente. L’omissione dell’obbligo assicurativo potrà essere sanzionata amministrativamente nella misura di euro cento per ogni lavoratore e per ogni giornata lavorativa effettuata.

Le trattative

Se forse un “decreto rider” non era nelle iniziali intenzioni del ministro Luigi Di Maio, ciò che fin da subito era sembrato essere il primo dossier a finire sul tavolo del neoministro del Lavoro era proprio la definizione delle prerogative dei prestatori digitali e la loro stabilizzazione.

La necessità di aprire un tavolo di trattative con i riders fu, infatti, colta al volo dal ministro che propose, per tutelare questi lavoratori, ben due strade: la prima doveva canalizzarsi nell’introduzione di una nuova norma, dall’allora presago titolo, il c.d. decreto Dignità, nell’ambito della quale si ventilava l’ipotesi di inserire una previsione che includesse il lavoro on demand nell’alveo della subordinazione. L’altra strada, enunciò il ministro, avrebbe dovuto essere quella di raggiungere una concertazione tra le parti per trattare una base condivisa di diritti e tutele da cui poter partire.

Venne così aperto un “tavolo” di negoziazione tramite il quale le volontà delle parti avrebbero dovuto congiungersi all’insegna di un inedito contratto collettivo nazionale di lavoro per i riders. Non mancarono, infatti, proposte municipalizzate – ma interessanti come la Carta di Bologna – per la determinazione di precisi impegni per le piattaforme di consegne a domicilio purtroppo, però, non accettate dalle più significative multinazionali e pertanto rimaste sostanzialmente lettera morta.

Di tal ché, scorsa l’inefficacia della disarticolazione di una contrattazione delegata e locale, la negoziazione si spostò sul piano nazionale quando il Ministro del Lavoro sembrò intenzionato a trovare una quadra nella contrattazione collettiva nazionale per tutti i fattorini.

Tuttavia se, da un lato, per il dicastero di Di Maio, il punto di convergenza si sarebbe dovuto concretizzare nella previsione di un compenso minimo orario, una tutela Inail e Inps, il diritto a non dipendere da un algoritmo e la regolazione della prestazione di tipo reputazionale, dall’altro, le parti sociali rappresentati i riders caldeggiarono fortemente il riconoscimento del rapporto di lavoro subordinato “laddove e qualora si manifestino le condizioni di una presunzione di subordinazione” del delta di fattorini sempre connessi alle dipendenze dell’app.

Il confronto a cui hanno partecipato il Governo, le aziende di consegne a domicilio riunite sotto l’associazione Assodelivery, i sindacati autonomi dei fattorini e i sindacati confederali (Cgil, Cisl e Uil), prolungatosi da giugno fino alle settimane scorse, sfibrato, si è così esaurito senza neppure un accordo prodromico.

Il nodo della qualificazione giuridica dei lavoratori on demand

Allo stato dell’arte, appare evidente, come il punto di rottura fra le parti sociali sia proprio stato, più che il perimetro di tutele da esperire, la qualificazione giuridica dei lavoratori on demand e in particolare quale riconoscimento offrire ai riders nell’ambito della dicotomia tipica fra rapporto di lavoro autonomo e rapporto di lavoro subordinato.

Una qualificazione che, respinta categoricamente (forse un po’ troppo categoricamente) dalle prime pronunce giurisprudenziali sul tema nonché dallo stesso muscolare dietrofront del Ministro Di Maio, è ormai l’oggetto definitivo del contendere su cui nessuna parte è disposta a transigere.

Se, da un lato, alcune (non tutte) le piattaforme con l’appoggio dei sindacati confederali sarebbero state disposte a riconoscere ai riders una porzione di tutele ancillari, pur se fondamentali, quali la paga minima oraria, la copertura previdenziale Inps e Inail, il rimborso delle spese di manutenzione dei mezzi, nonché, si pensava, una indennità forfettaria di fine rapporto che si sarebbe riproporzionata sulla base della durata del contratto e dell’ammontare complessivo del lavoro prestato, ciò che è mancato, è ormai evidente, è proprio l’intesa sulla qualificazione di lavoratori come dipendenti subordinati. Una inconciliabilità non di poco conto, tuttavia, se si pensa ai due diametralmente opposti regimi giuslavoristici, quello del lavoro autonomo e quello del lavoro subordinato.

L’attuale quadro normativo

Boost your income! Choose your own hours! Stay Fit!” sono i tre benefits che Foodora citava nel suo sito per galvanizzare i suoi utenti, i riders. L’esaltazione del privilegio dell’auto-imprenditorialità, in Foodora come in tutte le altre app della gig economy nulla preconizza riguardo il rapporto di lavoro che si instaura fra app e utente, ma cela piuttosto una propensione ad estromettere il dispositivo garantista del diritto del lavoro.

Aziende come Uber sostengono, con convincenti campagne pubblicitarie, che i loro collaboratori siano lavoratori autonomi o appaltatori indipendenti; il personale, dunque, non è in realtà il loro personale. Tuttavia, per suscitare questa convinzione e somministrarla alla platea degli utenti si è abbinato un ulteriore espediente. Emerge così la completa mistificazione del rapporto di lavoro in funzione di una totale deresponsabilizzazione dell’app e una metodica e sistematica esaltazione del lavoro autonomo, nonostante diverse siano le interrogazioni che stanno inquisendo “se le società esercitino un eccessivo controllo su di essi per poter continuare a trattarli come indipendenti”.

La qualificazione contrattuale unilateralmente imposta dai giganti del Food Delivering si attesta, attualmente, nella macro-categoria del lavoro autonomo. Le tipologie contrattuali che si alternano sono, generalmente, i contratti di collaborazione coordinata e continuativa (c.d. co.co.co.) per Just Eat, Movenda e Foodracers e il modello seguito da Glovo, Deliveroo e Ubereats, ossia i principali colossi del settore, che prevede – e impone – la stipula di contratti di collaborazione occasionale, con l’apertura della partita iva al superamento della soglia dei 5mila euro lordi.

Eppure la parcellizzazione della prestazione lavorativa nella digital economy e la ‘smaterializzazione’ del datore di lavoro dell’Industry 4.0 hanno inesorabilmente sancito una frattura fra le categorie classiche del diritto del lavoro e la fenomenologia del lavoro on demand. La gravitazione nell’economia digitale di fenomeni contrattuali che, a fronte di una veste formale “privatistica” e autonoma, dissimulano spesso un rapporto di lavoro riconducibile all’area della subordinazione pone diversi interrogativi soprattutto nell’ottica di articolare un sistema di tutele sostanziale che possa dare una risposta garantista ai riders.

In questa prospettiva non stupisce infatti che, a fronte delle prime inflessibili pronunce di merito che hanno escluso la subordinazione dei prestatori on demand in virtù della tradizionale interpretazione dei canoni ermeneutici in tema, il legislatore abbia optato (perlomeno inizialmente) per una scelta di carattere sistematico tesa ad allargare la nozione di subordinazione così da includervi, de facto, i digital workers e rispondere alle poliedriche istanze generate dal lavoro tramite piattaforma.

Ciò che è mancato è, tuttavia, un progetto coerente e strutturale che fosse capace di riformare e plasmare le tradizionali categorie giuslavoristiche per rispondere al fenomeno dell’attrazione nel paradigma civilistico dei rapporti di lavoro della gig economy laddove è invece ormai necessario uno sviluppo di imputazione delle tutele parallelamente alla definizione degli elementi qualificatori essenziali.

Il passo indietro del Governo

Di fatti, l’iniziale impostazione dell’attuale legislatura è parsa, almeno inizialmente, confermare i rapporti nell’ambito della divisione binaria tra lavoro autonomo e subordinato, non optando per categorie intermedie di articolazione tipologica, neppure privatistiche o atipiche. Anzi, se è stato possibile intravedere una qualche tendenza in materia questa si è percepita nel c.d. ‘Decreto Dignità’ convertito con legge n. 96 del 9 agosto 2018 in relazione alla formula contrattuale del lavoro subordinato. Questo in quanto il c.d. ‘Decreto Dignità’, tralasciando incerte considerazioni in ordine agli effetti, raccoglie il merito di aver posto – quantomeno preliminarmente e per la prima volta – l’attenzione anche sul tema delle prestazioni di lavoro fornite tramite piattaforma digitale. E’ stata paventata, infatti, nella bozza del Decreto in oggetto l’introduzione ex lege di “un accesso alle tutele per il tramite della riconduzione dei rapporti intercorrenti tra piattaforma e lavoratori nell’alveo applicativo del diritto del lavoro subordinato” (Cfr. E. Dagnino, Decreto dignità e piattaforme digitali, questioni di merito e di tecnica normativa, in Guida al Lavoro, 29 giugno 2018, n. 27) tramite una previsione che, pur non incidendo direttamente sull’art. 2094 c.c., ne avrebbe dovuto (ormai il condizionale passato è d’obbligo) specificare o integrare i contenuti. Questa previsione avrebbe potuto porre le fondamenta giuridiche della gig economy, in materia giuslavoristica, fornendo un ‘pacchetto’ di diritti in funzione dell’attrazione all’interno della tipologia del lavoro subordinato, al fine di arginare l’uso abusivo e/o elusivo della disciplina di diritto del lavoro a fronte dello schema contrattual-privatistico.

Una formulazione poi silenziosamente espunta, con contestuale inversione di marcia del Ministro Di Maio, dall’approvazione definitiva del testo di legge. Un tentativo – se pur maldestro visti i profili di legittimità sollevati dall’emanazione tramite decreto legge – per parte della dottrina, ma solo un tentativo, fra l’altro non nuovo al nostro panorama legislativo che ha visto la proposta dell’estensione dell’ambito applicativo delle discipline relative ai rapporti di lavoro subordinato anche con il d.d.l. n. 4283/2017. In tale proposta, infatti, l’intento estensivo sarebbe stato perseguito tramite una disciplina di specificazione e ampliamento dell’ambito applicativo dell’art. 2 comma 1 del d. lgs. 81/2015.

In conclusione

Rebus sic stantibus non è, dunque, inverosimile che la prospettiva attraverso cui i riders analizzano la genesi del lavoro digitale sia quella volta a promuovere interventi di ‘flessibilizzazione’ della disciplina al fine dichiarato di ridurre la rigidità tipologica del lavoro subordinato e scongiurare la fuga dal diritto del lavoro; una fuga che ha come destinazione esplicita la contrattazione paritaria fra privati e che, in questo caso, tanto paritaria non è. Tutto considerato, non è diversa dalla prospettiva che il legislatore ha, a più riprese, sovente scelto.

Occorre, per concludere, rammentare, come la dilatazione dell’impianto privatistico in ambiti genuinamente lavoristici non sia una questione solo di forma poiché l’applicazione dell’autonomia negoziale, a fronte di posizioni giuridiche differenti, perde l’obiettivo di riferimento, ossia la ponderazione dell’intervento attivo e riequilibrante del legislatore tramite la disciplina di diritto del lavoro, con il rischio di trascurare quell’impegno a consentire il pieno sviluppo dell’istanza solidaristica, previsto dal nostro ordinamento, per i lavoratori come ‘soggetti deboli’.

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